Ultima almeno per quel tempo, poiché i turchi, sconfitti e in Dalmazia e a Zenta, sul Danubio, erano stati costretti a chiedere la pace, conclusa successivamente e firmata a Carlowitz nel 1699.
Pace era pure, dopo tanti eventi, per le nostre bande.
I superstiti, compiuta così superbamente la loro missione, dai monti di sangue, tornarono a Spalato, a Sebenico, a Venezia.
Gli altri rimasero lassù, per la glorificazione, in eterna guardia.
Nel maggio del 1700 colonne di popolo salivano lentamente verso la cima del monte Santo Stefano.
Quasi nessun segno era rimasto, in quel territorio, della lotta sanguinosa che vi era stata combattuta qualche tempo prima.
Nei prati verdi pompeggiavano i fiori; nei boschi stormivano le foglie; sugli alberi cantavano gli uccelli.
La primavera sfolgorava nella sua romantica pienezza.
A mano a mano che toccava la vetta, tutta quella gente, tra la quale numerosi i superstiti, si disponeva in composto raccoglimento attorno a un'alta colonna di marmo coperta da un ampio telo. Un mormorio si diffondeva quando, seguito da numeroso corteo, giungeva l'inviato del Doge.
Erano con lui Santuccio di Froscia e Titta Colranieri.
L'inviato di Venezia sostava dinanzi alla colonna. Dopo un breve raccoglimento, come di adorazione, parlava. Diceva che nel precedente anno i turchi, per una rivincita sulle gravi sconfitte d'oriente, avevano preparata, con forze notevoli, una grande offensiva. Dalla parte dell'Ungheria davano sicurezza le truppe del principe Eugenio, che vi erano di presidio; non vi era sicurezza dalla parte della Dalmazia. La Serenissima provvedeva d'inviarvi d'urgenza le compagnie dei pretuziani, sulle quali già splendeva, per precedenti azioni, la luce della gloria.
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