Nessuna norma fissa che io sappia, aveva presieduto alla distribuzione dei volontari nelle compagnie. Nella 2a non ve n'erano moltissimi; in essa mi raggiunse il figlio del mio professore di Pavia, Vergani, giovinotto alto, biondo, di ottimo cuore, noto fra i condiscepoli per la poca voglia di studiare: lo ebbi sempre d'occhio, quantunque appartenesse ad una diversa squadra, per contentare il buon professore che me lo aveva tanto raccomandato.
Io appartenevo alla quarta squadra, alla quale era preposto il sergente Quasso, ottima pasta d'uomo, preso particolarmente di mira, non so perché, dal capitano Fezzi. “Quasso!” egli gridava dieci volte di seguito, e Quasso correva a subire sempre, con la stessa flemma, la solita sfuriata; né Quasso, anima buona, pensava mai a riversare su noi il malumore di cui era vittima.
Compagni volontari avevo nella squadra, un bolognese, insopportabile, perché si lamentava continuamente di tutto; un parmigiano, buonissimo diavolo; un giovinetto livornese, di umili natali, tranquillo e bravo quanto mai. Con questi ultimi due combinavo quasi sempre la tenda.
Per numero e qualità di volontari andava distinta la 3a compagnia. I suoi cameroni figuravano in cittadella come i più aristocratici. I due fratelli Aceti, i tre fratelli Caccia erano anche stati nominati sulle gazzette.
Si parlò assai, allora e dopo, della cattiva accoglienza, che i volontari ebbero dall'esercito regolare piemontese. In ciò va fatta molta parte alla esagerazione, molta alla ragione. Quegli antichi reggimenti piemontesi, solidi, con gerarchie consacrate dal tempo e dallo spirito di corpo, con norme di disciplina inflessibili, e nei quali, confessiamolo pure, la dottrina e la coltura non abbondavano, venivano senza dubbio un po' scossi nella loro compagine dalla introduzione di un elemento affatto nuovo e inaspettato, che non poteva quindi non essere ricevuto che con diffidenza. Gli ufficiali, quasi tutti militari per tradizione di famiglia, abituati a comandare a soldati, che riconoscevano in loro un'autorità incontestata, non potevano accettare lietamente, nelle file, giovani troppo intelligenti per trasformarsi d'un tratto in reclute passive, giovani pieni di certe idee, che sembravano inutili anzi dannose nell'esercito. I sottufficiali si seccavano di comandare subordinati, sovente a loro superiori per condizione sociale e per educazione; e quando si sentivano “legge la vita” o “fe la carta” da una manica di coscritti, non avevano torto di sbuffare e minacciare di “sgnacchè in croutoun”. I soldati, che poco capivano del movimento nazionale, non ancora ben persuasi che il Piemonte fosse in Italia, diffidavano di cotesti commilitoni non della classe loro, ignoranti del dialetto piemontese, la lingua classica dell'esercito: e li guardavano con sospetto. Peggio poi i contingenti, cosidetti provinciali, che attribuivano ai volontari la provocazione della guerra, e quindi la colpa del loro richiamo sotto le armi, e verso i quali dimostravano in tutti i modi il risentimento, per essere stati strappati alla famiglia. “Vieni dall'Italia, tu?”, domandavano curiosamente, mentre si stava a chiacchierare nel camerone; “e perché ti sei arruolato in Piemonte?” E quando si rispondeva con una tirata patriotica, crollavano il capo: “quante balle! va là che sei venuto per la gamella!” E magari subito dopo chiedevano in prestito una moutta, moneta allora in uso del valore di quaranta centesimi. Non di rado volavano anche dei sonori scappellotti, e questi valsero, forse più di molti altri argomenti, a cementare il sentimento della fratellanza nazionale. Quando l'Aceti, accettata lì per lì, per gioco, da un vecchio granatiere, la sfida alla baionetta innestata sul fucile, e nel bel mezzo del camerone, presente la compagnia che faceva loro corona, ferì l'avversario, egli, con quel colpo di punta, favorì la nostra causa meglio che con qualsiasi eloquente discorso. Non tralasciammo d'altra parte di provare le buone disposizioni dell'animo nostro verso loro, concorrendo, e largamente, alla sottoscrizione nazionale, che fu aperta a beneficio delle famiglie povere dei provinciali.
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