Giulio Adamoli
DA S. MARTINO A MENTANA
(Ricordi di un volontario garibaldino)


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     Per arrivare laggiù al coperto dei tiri del nemico, ci convenne camminare attraverso le brecce aperte nei muri delle abitazioni, in mezzo ai rottami dei tetti, dei soffitti e dei pavimenti, ai frantumi di mobili d'ogni sorta, perfino ai cadaveri insepolti. Raggiunto il posto, trovammo i bersaglieri padroni assoluti del luogo, che se la spassavano fra le rovine come fossero a casa, portando via semplicemente il letto o la mensa quando una bomba veniva a disturbarli.
     Il maggiore del battaglione e gli ufficiali accolsero festosamente le due camice rosse, e c'imbandirono in un salotto dei meno avariati una lauta colazione; poi, con zelo e coscienza, ci fecero gli onori dei loro avamposti, guidandoci lungo tutta la linea delle sentinelle, stese in faccia ai bastioni, e riparate nei fossati o dietro le fascine, fermandosi ogni poco a raccontare un aneddoto, senza farci grazia del menomo particolare; e sempre all'aperto, sotto gli occhi dei soldati borbonici, che oziavano sugli spalti, tanto vicini da riconoscerne le fattezze, e che ci contemplavano indifferentemente. Uno di essi era anzi in una posizione così sconcia, che bisognò trattenere un bersagliere dall'inviargli con la carabina una lezione di buona creanza.

     Pare che per un tacito accordo, dopo un cannoneggiamento prolungato, o in certe ore del giorno, si osservasse una specie di tregua; non sapendo io spiegare diversamente perché i cannonieri di Gaeta non si sieno allora dati il gusto di mandare a gambe per aria, con un colpo di mitraglia, una mezza dozzina di ufficiali dei bersaglieri, e le due camice rosse. Rebuschini ed io dovevamo naturalmente tener bordone alla rodomontata dei nostri anfitrioni, e ridere e scherzare con loro; ma non ci spiacque che la passeggiata avesse pure un fine.


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Umberto