Simonetta era il tipo del cittadino soldato. Poco ei curava la forma, ma molto chiedeva alla sostanza. Le sue guide, che lo adoravano, raccontano ancora come un giorno, il 1859, non trovando pronto sul labbro il comando, gridasse: “Insomma vegnimm adree” (venitemi dietro), e li conducesse dritto al nemico, sempre audacemente innanzi a tutti.
Il suo coraggio passava in proverbio. I suoi ufficiali, dopo il primo ottobre, lo pretendevano fatato, tanto pareva loro strano, che fosse uscito incolume dai pericoli, cui si espose. Il suo talismano erano le immagini dei figlioletti, che egli, prima di buttarsi nella mischia, baciava furtivamente, quale invocazione suprema.
Simonetta aveva per aiutante un nipote, Carlo Pedrali, che degnamente seguiva le orme di lui. Fuggito dalla casa paterna per arruolarsi nella brigata Regina, a sedici anni aveva combattuto valorosamente a Palestro. In Sicilia si era guadagnato al fuoco il grado di ufficiale. Rimasto poi nell'esercito nazionale, egli aveva saputo conquistarsi le simpatie dei superiori, e avrebbe largamente mantenute le promesse date alla patria da giovinetto, se la morte non lo avesse rapito nel fiore degli anni.
Appunto con Pedrali, con suo zio Camperio, con Rebuschini, che aveva fatto la campagna sotto Bixio, ed ora spesso soggiornava meco a Caserta, con Rosales e Campioni, progettammo nel dicembre una gita a Gaeta, per veder l'assedio, e salutare i parenti o gli amici. Allorchè una buona berlina di posta ci ebbe rapidamente portati a Mola di Gaeta, ognuno si mise alla ricerca dei suoi cari, ed io accompagnai il Rebuschini presso il fratello Emilio, ufficiale nel battaglione dei bersaglieri, confinato in fondo al sobborgo, a poche centinaia di metri dalla fortezza.
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