Travlò non parlava che il russo, lingua che io capivo assai imperfettamente. Non mai sazio di aver nuovi ragguagli intorno al meraviglioso evento d'Italia, mi stillavo il cervello per interpretare le astruse risposte, e costringere il compiacente interlocutore a svolgere in più modi il periodo, finché ne avessi afferrato il senso: lo trattenevo e lo richiamavo ancora, mentre le troiche dei nostri tarantass scalpitavano impazienti. In tal guisa bizzarra io venni a conoscere che Roma apparteneva all'Italia.
Ma allora, nella gioia ineffabile da cui fui preso nel sapere, che quella meta, suprema aspirazione de' nostri cuori, vietataci una volta sui mesti campi di Mentana, era alfine raggiunta, io lanciai agli echi degli Urali un grido di plauso per il nostro esercito: come quando, granatiere, spossato dal combattimento, avevo salutato la brigata Savoia, sopraggiunta fresca a respingere il nemico, che noi non avevamo potuto debellare.
E qui, nel nome di Roma, intangibile capitale d'Italia, io prendo congedo dal mio lettore.
L'intenso piacere, che io ho provato nello scrivere questi ricordi che evocano nomi carissimi, ed eventi pieni di emozioni, non mi fa velo al giudizio. So come i racconti retrospettivi, che riscaldan l'animo del narratore, sovente appaiono tiepidi o freddi a chi li ascolta. Ma se il lettore di queste pagine vorrà sostituire, con la sua immaginazione, a quell'io importuno, perché sempre in vista su la scena, quei mille e mille ignorati volontari, che senza aver aspirato ad alcuna ricompensa, nemmeno al premio della gloria, spinti dal solo amor di patria, fecero altrettanto e più del protagonista; forse, in questo libro, egli scoprirà un interesse nuovo, e darà a me la suprema, intima soddisfazione di non aver fatto opera del tutto inutile.
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