E fu una vera disdetta per l'Italia, che l'imperatore non chiamasse a entrare in azione il Della Valle, perché l'intervento di una brigata di artiglieria piemontese all'assalto di Solferino avrebbe avuta un'importanza militare e politica non indifferente. In ogni modo non è men degno di memoria il fatto, che ventiquattro bocche da fuoco vennero tolte, durante la più grande battaglia della guerra, all'esercito sardo, e poste a disposizione dei francesi.
Il mio reggimento rimase a Ponticelli sino alla fine di giugno, poi si portò a Ponti con una marcia, che poco mancò non diventasse funesta a me e a molti commilitoni, mandati per un momento ad occupare un castello diruto, il quale, appena usciti noi, venne tempestato di bombe dai fortini di Peschiera. A Ponti ci accampammo sul versante meridionale delle colline, che si stendono a mezzodì di Peschiera: e in attesa dei cannoni di posizione, che si dicevano in cammino, si bloccò la piazza. Allora incominciò per noi la vita veramente dura.
Con un caldo soffocante, su di un terreno spoglio di ogni vegetazione, si lavorava per turno a scavare lungo il ciglio un fossato e delle buche, ove si collocavano al riparo le avanguardie destinate a sorvegliare il nemico. E bisognava aver cura di maneggiare il piccone e il badile curvi ben bene perché i cacciatori tirolesi, armati di eccellenti carabine, si divertivano a colpire quelli che per poco offrivano loro un punto di mira.
Dai forti austriaci arrivavano incessantemente bombe, racchette, cannonate, che oltrepassavano quasi sempre il nostro campo non so se per imperizia degli artiglieri o per altra cagione; forse non ci credevano tanto vicini. Ben pochi di quei proiettili cadevano fra le tende, recando danni relativamente lievi, mentre parecchi incendiarono dei pagliai e distrussero dei cascinali alle nostre spalle.
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