Avuti i passaporti mediante cotesto stratagemma, spinti dal timore di veder fors'anche rinnovare un'altra volta, senza di noi, su le coste pontificie, la spedizione dei Mille, il 4 agosto, preso commiato dalle famiglie, Antonio Frigerio, io e Gaetano Tallachini di Varese, giovane buono e ardito, amico fedele fino al sacrificio, devoto a Garibaldi fino all'idolatria, ci affrettammo a metterci in cammino.
A Genova cercammo di Bellazzi, il segretario di Garibaldi, persuasi di avere finalmente da lui schiarimenti intorno alla situazione. Ne sapeva meno di noi. La città formicolava di giovani desolati, ai quali l'autorità vietava di partire, e che non si potevano risolvere a tornare a casa, sperando di deludere in qualche modo la vigilanza della polizia. Ma nessuno capiva perché, trattenendo i giovani sul continente, si concedesse poi a Garibaldi di fare uomini ed armi in Sicilia.
Una prova, se pure ancora ne abbisognano, delle incertezze e delle contraddizioni, che erano non solo nel governo e nei cittadini, ma persino nell'animo dei soldati, è offerta da questa lettera, curiosissima nella sua ingenuità, di un sergente del 48° reggimento di fanteria, del mio paese, conservata fra le pagine del diario di mia madre. È del 5 agosto, ed ha la data di Palermo.
“Garibaldi si trova qui, nella Sicilia, con un esercito di circa sessanta o settanta mila uomini; vuole andare a Roma, ma le Potenze non sono contente: la Francia gl'impedisce il passo; egli ha risposto alle Potenze, che batterà chiunque gli verrà davanti. Noi siamo qui otto reggimenti di linea, quaranta nello Stato napoletano, undici
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