“Sacr...! Vadano un po' tutti al diavolo!” fu la giaculatoria che si sprigionò spontanea dalle nostre labbra. Fosse per incuria, o per malvolere, o per errore, di fatto alcuni drappelli di garibaldini erano capitati su la piazza di Paternò. Ma al nuovo imbroglio questa volta rimediarono altri ufficiali; e quando Dio volle, la colonna intera riprese la via di Catania, ove giunse poco dopo la mezzanotte.
Del nostro soggiorno in quella città così scrivevo a mia madre il 23 agosto:
“Stiamo qui organizzando volontari e disertori, che ogni momento arrivano. Ma che cosa s'intenda fare io non so. Cerco di non ragionare più e di non pensare più, ora che non posso più ritirarmi. Volevano darmi un comando, ma non lo accettai; voglio essere indipendente. Se ci batteremo con i nostri, mi lascerò uccidere piuttosto che sparare. Fui addetto al generale come ufficiale di ordinanza, servizio da facchino. Del resto si sta bene; bene alloggiati, ben nutriti. Le truppe regolari ci stanno intorno a poche miglia, ma per ora non ci molestano. Dio ce la mandi buona!”
A spiegazione di queste parole aggiungerò, che a sostenere quel “servizio da facchini” si era in una dozzina, tra' quali Tallachini e Frigerio; che il “buon alloggio” veniva offerto dalla badia dei benedettini; e che per cansare il pericolo di “battermi con i nostri” io avevo dichiarato, e mantenni la parola, qualmente non avrei mai cinto sciabola né impugnata un'arma sino al confine pontificio.
I quattro deputati si erano trattenuti a Catania, e però videro spesso Garibaldi, sebbene non nutrissero più lusinga di riescire menomamente a vincere il suo animo, nel quale il successo della marcia su Paternò e l'entusiasmo dei catanesi avevano fomentato l'ardore e rinfiammate le speranze.
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