“Ritornate in paese” disse a Frigerio e a me; “e chiedete al signor maggiore un colloquio in mio nome”.
Ci sentimmo rinascere, e volammo a Paternò, ripetendoci lungo il cammino: “se il maggiore consente a veder Garibaldi, siamo salvi”; tanto fidavamo nel fascino del nostro condottiere.
I soldati erano già schierati in battaglia. Biffi, pallido, ma coll'aspetto deciso di chi non cederà più ad alcun sussulto dell'animo, sorpreso del nostro ritorno, ci riporta dal comandante.
Su le prime, questi non voleva saperne di aderire alla preghiera del generale, chiudendosi ostinatamente dietro la parola della consegna, che egli era desolato di dover eseguire. Infine, vinto dalle calde, appassionate istanze di noialtri, che soltanto in quel colloquio scorgevamo una via di scampo, cedette. Accompagnato dal Biffi, il maggiore andò incontro a Garibaldi, che a sua volta veniva dal campo con un aiutante, e si abboccò con lui, mentre noi attendevamo rispettosamente a distanza.
Si accordarono in un mezzo termine: che la colonna non sarebbe entrata in paese, ma avrebbe mandati i furieri a provvedersi dei viveri. Garibaldi tornò quindi al campo; e il maggiore Gallois, combattuto tra la soddisfazione di avere evitato lo scontro fratricida e il dubbio di aver trasgredita la consegna, si ridusse con i soldati entro le porte, seguiti dal Frigerio e da me, che eravamo stati cordialmente invitati dagli ufficiali a fare colazione con loro.
Sedevamo, contenti di avere scongiurata la catastrofe, alla modesta mensa del cantiniere, quando un nuovo accidente minaccia di abbattere la nostra faticosa opera di conciliazione. Un sergente accorre, e parla concitato al Biffi, che funzionava da aiutante maggiore, e che, per la forza degli eventi, esercitava allora nel battaglione un'autorità incontestata. Biffi s'alza di scatto, rovesciando le panche; e gridando: “i garibaldini sono in Paternò, così si mantengono i patti!” Si precipita fuori.
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