Dovevano ricordare che se egli, troppo fidando nell'altrui rettitudine, era caduto sulla via della sua operosità, aveva tenuto, d'altra parte, sempre alto e sempre onorato il proprio nome.
Povero padre! Moriva non avendo al suo fianco, nell'anticipato tramonto, per spietata avversità, che il solo figlio Antonio. Ma moriva rivolgendo ai cari lontani, in una perfetta lucidità di mente, tutti i suoi pensieri, e dopo di avere scritto alla cara compagna una lettera tenerissima.
Ricordava, in quella lettera, malinconicamente, il primo incontro, nella festa di Pasqua, nella chiesa di San Lorenzo, avvolta dal profumo degli aranci e dei pini. Ricordava il tempo vissuto sule rive fresche d'ombre e d'acque del Tordino e del Vera, fiumi sacri pure alla giovinezza di Giuseppe e di Doralice, suoi genitori. Ricordava ad uno ad uno i figli, addolorato di non aver potuto fare per essi, quanto era nel suo desiderio.
Tante altre cose ricordava, nell'afflitto tramonto, chiedendo alla buona compagna, per le proprie manchevolezze, se ve ne erano, il suo perdono.
Povero padre! Collocato nel comune campo della morte, le sue ossa, prima che potessero essere salvate, sparivano, nel volgere inesorabile del tempo, come spariva la tomba, che le conteneva.
Ma non sparivano gli affetti umani, che sopravvivono al silenzio delle urne, ai misteri della morte.
A Giffoni, dopo la morte del babbo, le cose s'aggravavano. Il fratello Giuseppe, congedato ed ammogliato, anche lui abbandonava l'Italia, per l'Argentina. Vincenzo, agitato da nomade spirito, si trasferiva altrove. Nella casa non rimaneva, con le piccole sorelle, che Federico, non in condizione, per l'età, di rendimento.
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