T. Col. Umberto Adamoli
NEL ROMANZO DELLA VITA (MEMORIE)


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     La religione era osservata da tutti, con scrupoloso zelo, e tutti appartenevano al partito cattolico.
     Finita la licenza, rientravo, come da un pellegrinaggio mistico, con nuove idee e nuovi propositi, a Porlezza.


     Nel successivo maggio riprendevo, su i piroscafi, il servizio speciale, nel momento in cui a Milano fervevano i sanguinosi moti, determinati non soltanto da ragioni politiche, ma anche e forse più ancora da ragioni economiche.
     Era il tempo doloroso del "Lasciar fare, del lasciar passare", in cui il nostro povero lavoratore viveva senza difesa, in un deplorevole stato di sfruttamento e di schiavitù. Per sottrarsene non rimaneva ad esso altra scelta, che quel di lasciare la casa, di varcare addolorato, con un sacco di cenci sulle spalle, il confine, andando così ad arricchire, con la sua intelligente operosità, terre di altre nazioni, magari nostre nemiche.

     I moti di Milano, nei quali s'era introdotto, come sempre avviene in simili casi, la plebaglia, repressi nel sangue, fallivano. Tutti color, specialmente dell'ordine intellettuale, che si ritenevano compromessi, o ricercati, si mettevano in salvo, con la fuga in Svizzera.
     Spettacolo pietoso al quale io assistevo in parte, che faceva molto pensare sul cattivo ordinamento economico, sulle sociali ingiustizie, sulle passioni non sempre serene, non sempre ragionevoli degli uomini.
     Di quei profughi ne vedevo molti a Lugano, di tutte le professioni, non esclusi sacerdoti. Un certo numero spesso veniva alla partenza del piroscafo, come per mandare all'Italia il mesto saluto.


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Umberto