In quella chiesa, mentre al suono largo dell'organo si compivano i sacri riti, pensavo se io, che avevo avuto altri segni, che per primo visitavo la terra dei padri e in essa attingevo nuovo spirito, non avessi davvero, rispetto alla famiglia, una speciale missione da compiere.
Amavo, durante il giorno, di muovermi, per visitare parenti e luoghi, ma la sera mi ritiravo presto per raccogliermi, nella stanza solitaria, nei miei pensieri, nelle mie fantasticherie. Forse quella doveva essere la stanza ove il nonno s'era moralmente preparato ai forti cimenti. Nella notte inoltrata, quando il villaggio già dormiva, pareva d'udire, nella casa muta, quel movimento agitato, che ne aveva preceduta la fuga. Pareva ancora d'udirne lo spirito, che io stesso forse evocavo, come in una seduta medianica, per sottoporlo ad interrogatorio, per sapere quel che non ancora sapevo della giovinezza, della vita vissuta, delle aspirazioni che avevano tormentato il suo nobile animo a Como, all'Aquila, a Teramo. Per sapere, soprattutto, quale avvenire era riservato ai figli di Gelasio, suo primogenito, non troppo assecondato dalla fortuna; per sapere l'esito dei forti propositi, che vivevano in me, nella salda mia volontà.
I segni, che ne avevo, parevano favorevoli.
Così passavo, nella casa sacra, una parte della notte. Nel giorno, nell'affettuosità dei parenti, da cui ero circondato, non avevo tregua, non avevo riposo. Tutti mi volevano a pranzo, a cena, a dormire. Dividevo il tempo come potevo. In casa dello zio Fortunato trovavo la cugina Margherita, della mia stessa età, che molto a me somigliava. Presso una zia vi erano due fratelli, suoi figli, prossimi ad essere sacerdoti.
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