Così tutti i giorni. Nessuno si commuoveva di me.
Si commuovevano, invece, le ragazze, che io, nei miei pensieri non lieti, non cercavo. Una di esse, ad esempio, spesso mi seguiva, da sola, per confortarmi nella solitudine dei boschi. Appariva teneramente civettuola.
Un'altra, da non confondersi con la prima, figlia di un pasticciere, anche lei fortemente innamorata, mi mandava, per mezzo di una donna servizievole, con le lettere, pacchi di dolci, che doveva sottrarre, furtivamente, al negozio del padre.
Momentanee distrazioni, anche se piacevoli. Un bel giorno, stanco d'attendere, decidevo pure io di rompere l'indugio, di partire per vincere il destino.
Prima d'allontanarmi volli visitare, salutare i parenti, che avevano nelle vene, fieramente, il sangue della mamma. Ognuno aveva per me, per le mie determinazioni, parole d'elogio, d'ammirazione, di augurio. Fui anche a salutare le giovani zie, con le quali avevo trascorso, nei mesti pomeriggi, tante ore, in affettuose confidenziali conversazioni. Stavano nel giardino degli aranci, luogo silenziosamente raccolto, dei nostri meridiani convegni. Ad un certo momento, essendosi la maggiore allontanata, restavo con la zia Emilia. Continuammo nella conversazione, velata, s'intende, di malinconia. Io esposi alla giovane zia, che voleva sapere, i miei progetti, i miei sogni. A diciassette anni è consentito anche audacemente fantasticare. Essa accoglieva le mie parole con evidenti segni di rammarico. Non ne spiegavo la ragione. Non si è sempre in condizione, specialmente se adolescenti, di penetrare nel dramma del cuore umano. Mi svelava essa stessa, ad un certo momento, i suoi affanni. La mia assiduità nel visitarla, la freschezza dei miei anni, la mitezza del mio sguardo e del mio sorriso, avevano stranamente operato anche nel suo animo. L'affetto di zia, nonostante la maggiore età, si era, a mano a mano, mutato in altro affetto.
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