La domenica e le altre feste, quando tutta la città si raccoglieva nella sera per ascoltare sul terrazzo del magnifico bastione la banda militare, io restavo nella mia stanza, come legato al mio tavolo, immerso nei libri. Non ero distratto neppure dalla musica, che giungeva, dall'alto, distintamente al mio orecchio.
Andavo a letto, poiché la mia robustezza lo consentiva, a tarda ora; m'alzavo con l'alba.
Non ero distolto neppure dalle famose feste di S. Efisio, che duravano più giorni, nelle quali concorreva, con le proprie caratteristiche, tutto il popolo sardo. Vi concorreva con i balli, le musiche, i canti, le ardite cavalcate e con i suoi complessi vistosi ricchi costumi.
Qualche volta di domenica, come momentaneo riposo, ed anche per meglio conoscere, nella vera vita, la nobile Sardegna, con il brigadiere mio compagno d'ufficio, sardo egli stesso, facevo gite lontano dalla città. Di là del fertile Campidano s'incontravano, generalmente, terreni sterposi, in cui, nell'abbandono, dominavano i cinghiali, i mufloni, gli uccelli a migliaia, ed il biblico pastore. Biblico, poiché anche lui, come quello asiatico, nella solitudine componeva, nella sua lingua, con spontanea arte, versi, canti armoniosi ed intagliava, con buon gusto, figure d'ogni maniera.
Ordinariamente sostavamo su qualche altura, tra alberi di sughero, nei pressi delle siepi di fichi d'India, da dove si potesse ammirare l'ampio golfo ed i paeselli bianchi, che parevano usciti dall'acqua, per riscaldarsi al sole.
Quanti pensieri, diversi da quelli delle Alpi, attraversavano, in quei luoghi remoti, il mesto mio animo. La solitudine, come su d'una nave sperduta nella vastità dell'Oceano, era più fortemente sentita.
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