Quantunque rappresentassi, con la mia divisa, il potere regio, pure non mi guardavano di mal occhio. Qualcuno, anzi, mi veniva a parlare, senza odio, con la speranza di poter tornare presto in patria.
Non posso dimenticare, appunto di Lugano, un italiano, che vi aveva abituale residenza, nobile d'aspetto, alto, con barbetta e capelli bianchi, che nel camminare si poggiava, stanco e un po' curvo, su di un bastone.
Si rivolgeva a me affinché m'interessassi per il ritiro d'un documento, da uno dei comuni della Valsolda, necessario per riscuotere la pensione a lui assegnata, quale reduce delle guerre del risorgimento. Doveva mal vivere, il poveretto, se ogni giorno si faceva trovare, in ansiosa attesa, all'arrivo del piroscafo. Non sapeva trattenere un gesto di desolazione nel vedermi giungere, ogni giorno, a mani vuote. Nonostante tutto il mio vivo interessamento, per le stupide formalità burocratiche, non prima di tre mesi riuscivo ad avere il prezioso documento. Ne feci una festa. Il giorno dopo viaggiavo verso Lugano felice. La città, che nel verde dei suoi dolci colli era già in vista, m'appariva, per lo stato del mio animo, più bella. Si giungeva; il piroscafo s'avvicinava alla banchina; s'arrestava; si gettava il ponte mobile. Io, affinché fossi subito visto, ero verso la prua, bene avanti. Guardavo, nel movimento dei passeggeri, sotto la tettoia, a destra a sinistra, sulle strade della città: nulla. L'amico non si vedeva.
Il piroscafo, intanto, compiute le operazioni, riprendeva il cammino. Pensavo, per la gioia della consegna, al giorno dopo. Sperai invano. Nei giorni successivi, nella ricerca, sapevo che quel povero amico, tanto rassegnato, non era più tra i vivi.
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