Io, anima candida, esaltavo la purezza, la nobiltà, la spiritualità del cantore di madonna Laura. Ma mi accorgevo che la bella donna, alle mie parole, s'inteneriva, i suoi occhi divenivano sempre più luminosi. Mi svelavano, poi, meglio lo stato del suo animo, le reticenze, la languidezza dello sguardo, i sospiri, che sfioravano il pianto.
Poiché da tutto traspariva che non era felice, stavo per fare qualche altra domanda, quando d'improvviso si rompeva l'incanto; s'alzava, si lanciava verso di me, s'abbandonava, con la sua profumata fervida giovinezza, tra le mie giovani braccia.
Sapevo dopo che quella tenera donna conduceva con il marito, anziano, rozzo, geloso, vita disgraziata. Era tenuta in casa, come in un carcere. Chiuse dovevano rimanere, nei sospetti e nei continui litigi, pure le finestre. Quando s'allontanava l'Otello portava con sé le chiavi del portone.
Il cielo benigno in quel giorno l'aveva voluta favorire. Aveva mandato, come uno sprazzo di luce, sia pure per un attimo, un cuore generoso e cavalleresco a confortarla.
Prima che lasciassi Cava dei Tirreni ricevevo da lei una lunga lettera, con la quale mi narrava, le vicende dolorose della sua giovane torturata esistenza.
Riprendevo il viaggio con il mio dramma, ma anche con la visione mesta di quella infelice.
A Napoli, in attesa della partenza del piroscafo per Genova, ero costretto ad altra sosta. Nella grande città babilonese, dai canti e dal chiasso scomposto, in una nostra caserma, ero spogliato di quanto possedevo. Usi di Napoli, mi si diceva.
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