Giulio Adamoli
DA S. MARTINO A MENTANA
(Ricordi di un volontario garibaldino)


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     Quando si riaprì l'Università dopo le vacanze, nel novembre del 1858, il fermento assunse proporzioni più gravi. Gli studenti frequentavano oramai più i conciliaboli che le aule universitarie, e i professori, che fiutavano la guerra nell'aria, invano tentavano di mostrarsi severi.
     Le animosità fra gli studenti e la popolazione da un lato e la guarnigione austriaca con la polizia dall'altro, s'invelenivano ogni giorno di più, e il pericolo di una conflagrazione sanguinosa diventava imminente.
     Un sinistro fatto venne a dare alla situazione una tinta sempre più tetra. Essendosi adottato in Lombardia, insieme con tanti altri sistemi di protesta, quello di astenersi dal fumare, ciò che scemava le entrate dell'erario imperiale, nel dicembre gli studenti, in massa, organizzarono una processione, nella quale gl'intervenuti sfilarono per la città, ciascuno con una pipa di gesso spenta in bocca o infissa nell'occhiello dell'abito o sul cappello.

     Un certo Briccio, professore di veterinaria, noto austriacante, avendo schernita la dimostrazione, con l'accennare in un pubblico negozio alle pipe di gesso e dire “ecco l'arma degli' italiani”, venne poche ore dopo pugnalato sul Corso, di prima sera in mezzo alla folla; né quantunque campasse ancora dieciotto ore, ei potè pronunciare una parola, o dare indizio dell'uccisore. L'arma, dalla lama triangolare, dalla impugnatura con una corona, un teschio e un angelo, lasciata con evidente premeditazione nella ferita, indicava con atroce ironia la ragione della vendetta.


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Umberto