Giulio Adamoli
DA S. MARTINO A MENTANA
(Ricordi di un volontario garibaldino)


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     Ho poi la convinzione di avere imparato là, sotto il regime di quella disciplina rigorosa, “senza cui nessun corpo militare può sussistere” come scrisse Garibaldi, ad adempiere scrupolosamente il dovere non solo nella sostanza ma anche nella forma, e che l'impronta stampata nel carattere, nella coscienza, nel contegno dal rigido ambiente militare, mi abbia sempre giovato nel corso della vita. Io serbo perciò una gratitudine speciale alla memoria di Francesco Simonetta, il quale, con amichevole violenza, mi persuase ad entrare nell'esercito regolare.
     Ebbi invero la buona sorte d'imbattermi in superiori, che fecero quanto stava in loro per rendermi meno ingrato il nuovo servizio, incominciando dal mio capitano, il marchese Reggio, garbato gentiluomo genovese. Questi però venne ben presto destinato al deposito, perché le conseguenze di una grave ferita alla testa, toccata a Genova nei 1849, gl'impedirono di prendere parte attiva alla campagna. Fu sostituito dal capitano Fezzi.

     Il mio maggiore, il conte Eugenio di Santa Rosa, figlio del celebre Santorre, intimo de' miei parenti, mi usò, durante la campagna e dopo, riguardi paterni. Era davvero, come si dice, un bel tipo: tarchiato, nero, negletto nell'uniforme, con una voce chioccia perduta nei grossi baffi, che faceva tremare i granatieri quando compariva in caserma, o giungeva in piazzar d'arme sul noto cavallo di colore isabella. Guai a chi gli capitava fra i piedi, quando qualche cosa non andava a suo verso; tempestava, afferrava per l'abito, minacciava, gridando in falsetto: “Av taju la faccia, canaja!” Ma si calmava subito.


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Umberto