Io ricordo della battaglia un seguito di episodi staccati; dell'andamento generale non capii nulla.
Alla nostra sinistra, dalla parte dell'esercito piemontese, gl'ingombri e i rialzi delle colline ci impedivano di scorgere ciò che ivi succedeva. Alla destra invece, dove si apriva la pianura, s'intravedeva da lontano la torre di Solferino fra nembi di fumo e di polvere, squarciati a volte dal lampo delle baionette e dal rosso delle uniformi francesi. Ma troppo io avevo da pensare ai casi miei, per occuparmi molto dello spettacolo.
Dei distaccamenti d'altre armi, nostri compagni di ricognizione del mattino, vidi uno, lo squadrone cavalleggeri di Alessandria, dopo ripetuti tentativi di cariche, resi vani dagli ostacoli insormontabili del terreno, subire stoicamente il fuoco, che lo decimava, fermo in un gruppo sulla strada verso Pozzolengo; dell'altro, la sezione di batteria, che avevo anch'io aiutato a piazzare e servire allorché iniziò con tanta efficacia la lotta, seppi che gli artiglieri, in quello stesso posto, si erano tutti fatti ammazzare su gli affusti infranti dei loro due cannoni.
Nei molti nostri andirivieni, a un certo momento mi trovai a far fuoco sul ciglio di un burrone, mentre una scarica ben nutrita dei nemici buttò a terra, morti o feriti, quasi tutti i miei compagni. Ricordo sempre il bravo provinciale della mia squadra, che sparava inginocchiato al mio fianco, quando, colpito al cuore, portatavi la mano, invocato: “Gesù Maria!”, capitombolò giù per lo scosceso pendio, rimase penzoloni impigliato in uno sterpo, né più si mosse.
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