Alle volte ci si distribuiva pane ammuffito, immangiabile; né era possibile provvedere altrimenti, perché il cantiniere non trovava modo di approvigionarsi. Non si potevano ristorare coi lavacri le membra riarse, perché acque vicine non esistevano, e il Mincio scorreva anch'esso troppo lontano. Saputosi una volta che alcuni granatieri, tra i quali anch'io, si erano spinti su le rive del fiume per bagnarsi, subito l'ordine del giorno portò la proibizione assoluta di uscire dal campo.
Eppure, fra tante fatiche e tanti disagi la solidità e la resistenza nostra non si smentirono mai. Sotto la tenda si mormorava, come avviene sempre nelle grandi riunioni d'uomini; si mormorava come nel quartiere e nelle marcie: ma né la disciplina né il servizio soffrirono mai il minimo strappo.
Forse le forze fisiche non avrebbero potuto sopportare a lungo una simile esistenza; ma a interromperla, ed anche troppo presto, sopravvenne l'armistizio, concluso dall'imperatore dei francesi l'8 luglio, valevole sino al 15 di agosto.
Confesso, che accogliemmo come un sollievo l'annunzio della sospensione delle ostilità. “Finalmente” scrivevo il 9 a mia madre “possiamo dormire un po' più quieti, senza essere destati tutti i momenti dal rombo dal cannone”. Con ineffabile voluttà ci tuffammo nel Mincio, e ci concedemmo tutte le raffinatezze che la situazione consentiva. Una lepre smarritasi fra le tende ci offrì anche un passatempo cinegetico, perché i granatieri si diedero a cacciarla sul ciglio dei colli con tale scalpore, che gli austriaci, insospettiti che si rompessero i patti, coronarono gli spalti dei forti colle micce accese alla mano.
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