Garibaldi giaceva in letto per una scorticatura alla gamba, cagionatagli dallo avere violentemente urtato contro un albero, montando a cavallo, per diporto, nella foresta. Un suo intimo e mio conterraneo, Felice Origoni, ci annunciò e c'introdusse.
Per quanto io fossi preparato, la emozione, che provai alla presenza di quell'uomo, mi riescì profondissima: il fascino della sua voce mi vinse addirittura; l'abbraccio ch'egli mi diede, mi fece suo. Ci accolse con familiare cordialità, facendo particolarmente a mio padre una gran festa, e rammentando con semplicità carezzevole i servigi, che egli aveva reso ai Cacciatori delle Alpi quando si aggiravano fra il lago Maggiore e Varese. Informatosi dei fatti miei e dei miei progetti, m'incoraggiò a continuare nella carriera delle armi, per tenermi pronto a combattere le nuove guerre della patria, e mi raccomandò di non trasandare gli studi di matematica, che mi avrebbero giovato anche nella milizia. Infine ci congedò, augurandosi di trovarci presto, tutti quanti, di fronte al nemico.
Mi sentivo, partendo da Fino, più alto di un palmo.
La impressione di quell'ora rimase certamente assopita presto dalle occupazioni del servizio e dalle seduzioni della città, che mi assorbirono completamente durante i primi mesi del 1860. Ma quando, nella primavera, si sparse la notizia della insurrezione di Sicilia, e l'opinione pubblica si commosse all'annuncio dei preparativi della spedizione di soccorso, la fantasia mi riprodusse viva la immagine affascinante di Garibaldi, e, nella mia mente il proposito di seguire le sue sorti, vago dapprima, andò agitandosi e pigliando ogni giorno maggiore consistenza.
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