Non però senza una lotta fiera e dolorosa. perché se da una parte m'incalzavano la smania di fortune nuove, gli eccitamenti dei condiscepoli dell'Università, la convinzione di cooperare più attivamente alla liberazione della patria, e il lievito rivoluzionario, che un po' fermentava sempre in fondo all'animo mio, anche per effetto delle opinioni di parte democratica, condivise da mia madre e da mio padre; dall'altra mi rattenevano lo scrupolo di abbandonare la bandiera, cui da così poco tempo avevo giurato d'esser fedele, l'affetto dei commilitoni, i consigli dei miei capi, dolenti che io rinunciassi ad una brillante carriera e convinti che anche l'esercito sarebbe presto nuovamente entrato in campagna, e, finalmente, le amorevoli ma calde rimostranze dei miei congiunti di Milano, severi conservatori, i quali mi trattavano nientemeno che di spergiuro se loro parlavo di svestire la divisa piemontese per andare a combattere con Garibaldi. Solo chi ha vissuto in quei tempi di sovraeccitazione può comprendere a quale duro cimento venisse posta la mia coscienza. E in tanto che mi dibattevo nel bivio, Garibaldi partì, e io mancai di far parte della prima spedizione dei Mille.
Allora la tensione di tutte le facoltà dell'animo mio diventò insopportabile. Non seppi resistere più oltre, e il 10 maggio presentai le dimissioni, che trattenute ventiquattro ore dal colonnello, il quale tentò un'ultima volta di persuadermi in contrario, vennero da lui spedite al Ministero, mentre, a un tempo, mi accordava una licenza di tre giorni per recarmi in seno alla famiglia. |