Niente pago di coteste spiegazioni, pranzai di mala voglia, e scesi a zonzo verso il porto.
“Ehi, Adamoli, che fai?” mi odo alle spalle. Volgo il capo: è Francesco Fera, un giovane calabrese, valoroso cacciatore delle Alpi, ferito a Varese e curato in casa mia; lo stesso, che ora comanda il 40° reggimento di fanteria.
“Aspetto d'imbarcarmi per la Sicilia, e tu?” gli chieggo io, correndo con l'occhio alla borsa da viaggio che aveva ad armacollo.
“Io parto stasera per laggiù”. E mi racconta su due piedi di sé e di altri pochi, che movevano senz'altro per l'isola dei nostri sogni.
Lo accompagno al molo, salto con lui nel guscio, monto a bordo del vapore, che alle 11 leva silenziosamente l'àncora, ed eccomi, col cuore in sussulto, su le acque del mare.
A spiegare l'enigma conviene ricordare, che i vapori Piemonte e Lombardo, dopo di avere imbarcati i mille a Quarto, incrociarono tutta la notte in vista della costa, aspettando le barcacce, che dovevano portare i fucili e le munizioni. Per uno di quegli accidenti tanto facili a verificarsi in occasioni così straordinarie, le barcacce
si smarrirono, e Garibaldi, obbligato all'alba di partire per non destar sospetto, dovette poi approdare a Talamone, ove, com'è noto, si fece consegnar le armi dal comandante della fortezza.
Il Bertani, organizzatore della spedizione, volendo rimediare al contrattempo, “in fretta e in furia” com'egli scrive nella sua relazione, con i pochi denari avanzati e con il concorso del Lafarina, noleggiò il vaporetto Utile alla casa Queirolo, vi caricò non so se due o tremila fucili e un milione di cartucce; vi mise su per scorta una squadra di volontari scelti dal Medici e dal Lafarina, e non appena il convoglio fu lesto, il 25 maggio, lo fece partire munito di patente netta per Atene, a fine di sviare i sospetti del governo.
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