Destatomi all'aurora in mezzo al mare, dopo aver dormito saporitamente sul nudo assito del ponte, mi volsi intorno per sapere un po' de' fatti miei. Incominciai dalla ispezione del legno, che non fu lunga. L'Utile, un vaporetto a ruote, adoperato fino allora all'ufficio di rimorchiatore nel porto, stazzava sessantanove tonnellate. Immerso fino ai tamburi per il grave carico delle armi e delle munizioni, navigava pesantemente, filando in media quattro sole miglia per ora. Guai se il tempo si fosse volto alla burrasca! Ispiravano però piena confidenza così la ciurma, composta di svelti marinai genovesi, come il capitano Francesco Lavarello di Livorno, un pezzo d'uomo, con un viso bruciato dal sole, con certi occhi fieri e sicuri, ombreggiati da folte sopracciglia da vero lupo di mare.
Non riescii così facilmente ad orizzontarmi in mezzo ai volontari, la maggior parte estranei fra loro. Eravamo sessantanove: i più, siciliani, di Palermo e di Trapani, parecchi genovesi, due ungheresi, un polacco; il rimanente d'ogni regione d'Italia: con gradita sorpresa trovai un conterraneo, Somaini di Viggiù. Passato il mal di mare, a poco a poco finimmo per conoscerci e stare allegri; la varietà dei dialetti, l'italiano barocco dei bravi ungheresi, che la vena umoristica e prettamente meneghina di un giovane milanese sfruttava, servivano di pretesto inesauribile ai frizzi. La sera poi, a prua, cantavamo in coro le canzoni paesane.
Si presentò come capo della spedizione, mostrando le lettere del Medici e del Lafarina, Carmelo Agnetta, un siciliano bruno, vivace, intelligente, che dopo aver subito la prigione in seguito ai moti del 48, era emigrato in Oriente, poi a Parigi, donde ora veniva. Riconobbero tutti la sua autorità, tranne uno, Enrico Faldella di Trapani, ex-ufficiale, credo, della marina britannica, il quale dichiarò di voler essere indipendente. Contrariamente all'Agnetta, il Faldella era biondo, e aveva il portamento e i modi di un inglese.
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