Con tali elementi convenne allestire un servizio di piazza in città, e un servizio di guardia ai Quattro Venti, ove le truppe borboniche, raccolte nelle caserme ed accampate su la spianata, aspettavano d'imbarcarsi per sgombrare l'isola, ad eccezione delle fortezze di Trapani, Milazzo, Messina e Siracusa. Nel centro non si presentavano difficoltà serie, perciò si aveva a trattare soltanto coi cittadini; ma fuori, di fronte alle sentinelle napoletane, era necessità stendere non senza una certa forma militare, altrettante sentinelle nostre.
Io venni subito destinato colà, e al primo affacciarmi agli avamposti, confesso, provai un tal quale senso di sgomento. Non sapevo capacitarmi che il corpo d'esercito avversario, che m'era d'innanzi, resistesse alla tentazione di schiacciarci d'un colpo solo. Ci volle l'indifferenza dei commilitoni, già sicuri del fatto loro, e il ricordo di Calatafimi e di Palermo per convincermi della realità delle cose. In faccia a noi si stendeva una linea di fazioni inappuntabili, tutte in uniforme, con buone armi, regolarmente esercitate; dalla parte nostra, una scarsa fila di straccioni, con le “scoppette” e gli archibugi dell'Utile. Dietro quelle, ventimila uomini perfettamente equipaggiati; dietro noi, una massa incomposta e quasi inerme. Eppure, di là i vinti, di qua i vincitori! Pareva di sognare. Però, passata la prima impressione, la vista di quei soldati dimessi e paurosi, in mezzo a tanta abbondanza di attrezzi da guerra, produceva nell'animo un disgusto doloroso, e io fui contentissimo, quando mi si tolse a uno spettacolo così umiliante per la natura umana.
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