Giulio Adamoli
DA S. MARTINO A MENTANA
(Ricordi di un volontario garibaldino)


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     I picciotti, che non avevano, come me, ragione di compatimento per quelle vittime della demoralizzazione borbonica, serbavano verso di loro un contegno provocante, che ci dava assai da fare. Invece di mantenere la consegna, quella cioè di evitare collisioni fra le truppe capitolate e la popolazione, ben sovente incominciavano essi pei primi ad inveire a parole contro le sentinelle nemiche, e se non erano subito frenati, passavano dalle parole ai fatti, specialmente quando avevano di fronte, non i bavaresi o gli svizzeri, ma i napoletani, verso i quali nutrivano un odio speciale.
     Di notte, per darsi coraggio, ogni quarto d'ora urlavano: “sentinelle all'erta”, e il coro ripeteva: “allerta sto”; senza ragione, alle volte, sparavano e gridavano all'armi, spiegando poi la chiamata con parole difficili a capirsi per la novità del dialetto, intramezzate dall'interiezione indigena del “santo diavolone!”

     In città la natura del servizio mi consentiva un po' più di svago, e mi dava agio di mescolarmi a quella strana, unica, indimenticabile fantasmagoria, che Palermo offriva in quei giorni. Gli abitanti, dopo il grande spavento e la lunga reclusione in fondo ai sotterranei, erano sbucati da ogni parte, e respiravano forte, a pieni polmoni, ed esprimevano la loro contentezza con la solita esuberanza meridionale: frase stereotipata, che si persiste ad usare, sebbene io abbia veduto i popoli del settentrione manifestare negli stessi modi, rumorosi ed appassionati, le sensazioni profonde e vivaci.


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Umberto