Giulio Adamoli
DA S. MARTINO A MENTANA
(Ricordi di un volontario garibaldino)


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     La massa non aveva una idea chiara dello scopo nazionale della rivoluzione. In mente sua, Vittorio Emanuele, il Piemonte, l'Italia rappresentavano il principio del bene, il Borbone, Napoli, la polizia il principio del male. A tanta confusione suppliva esuberantemente l'entusiasmo per Giuseppe Garibaldi, la cui figura si levava
     purissima e sublime su tutti, arbitra di ogni cuore, venerata come quella di un profeta, sacra come un discendente di Santa Rosalia, la patrona celeste dell'isola.
     Financo i preti ardevano incensi a Garibaldi. E, del resto, dai preti udii forse i discorsi più assennati intorno al movimento italiano; non ultima, questa, fra le strane antitesi di quella terra, ove s'incontravano l'ignoranza e la sudiceria accanto alla coltura e al fasto quasi regale, la burbanza alla cortesia più squisita, la crudeltà alla grandezza d'animo, la bigotteria alle aspirazioni più libere e generose.

     A compagno e a guida nelle escursioni di quei giorni io m'ebbi il fido condiscepolo di Pavia, Giuseppe Rebuschini, cacciatore delle Alpi nel 1859, allora della settima compagnia dei Mille. Accorso tra i primi incontro a quei dell'Utile, egli mi pigliò seco, mi mostrò i luoghi più famosi pei fatti d'arme recenti, mi menò alla conquista di un piatto di maccheroni in una locanda, da lui scoperta in fondo a un andirivieni di vicoli, e infine mi condusse a dormire sui morbidi divani del Casino Gerace anch'esso malmenato dalle bombe. Fummo, in quei giorni, inseparabili. Ci separò soltanto la diversità delle destinazioni.


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Umberto