Ci recavamo sovente da Benedetto Cairoli, il quale, circondato dall'affetto universale, giaceva disteso in una stanzetta a curare la tibia fracassata, certi che la nostra visita gli sarebbe sempre riescita cara. Cairoli, appena colpito, era stato trasportato all'ospedale di Sant'Anna, ove, mentre gli si facevano intorno medici e infermieri, una bomba cadde fra il suo e il letto accanto, in cui languiva il colonnello ungherese Tukory, tanto rimpianto. Lo sconquasso pose in fuga il personale dello stabilimento, e i due valorosi uomini rimasero del tutto alcune ore abbandonati, finché, avutane notizia, Garibaldi ordinò venissero condotti al Palazzo reale. Se non che, durante il tragitto, un patriota, che accompagnava la barella di Cairoli, si cacciò in testa, certo a buon fine, di menarlo in casa sua; e nonostante le proteste in contrari del povero Benedetto, egli obbligò i portatori a entrare nell'angusta scala di un quartierino, aspettò che si allargasse col piccone l'uscio di casa, e soddisfattissimo del fatto suo, adagiò il ferito nel proprio lettuccio. Eppure il nobil uomo, assuefatto agli agi, non perdeva, in mezzo alle sofferenze, la nativa serenità dell'animo, e, dimenticandole, c'intratteneva piacevolmente delle condizioni e delle speranze del paese.
Mi presentai anche a Garibaldi, che mi accolse con la usata affabilità sua, quantunque sopraffatto dal lavoro veramente immane, che la grandezza del compito gl'imponeva; ma nulla di notevole potrei raccontare di quel colloquio. |