Giulio Adamoli
DA S. MARTINO A MENTANA
(Ricordi di un volontario garibaldino)


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     Credo di poter affermare senza pericolo di essere smentito, che la posizione sociale più bersagliata al mondo sia quella dell'ufficiale di stato maggiore in un corpo di volontari. Su l'ufficiale di stato maggiore di qualunque esercito cade, in genere, una responsabilità gravissima, dovendo preveder tutto e a tutto provvedere, senza avere un momento di riposo. Ma, tra' volontari, ha inoltre il compito speciale di esser il bersaglio dei malumori di tutto il corpo.
     A lui la colpa dei disagi, dell'alloggio infelice, del cattivo cibo, delle pessime strade, quasi anche della perversa stagione. Egli dee riparare le angherie immaginarie, soddisfar le pretese assurde, porre rimedio agl'inconvenienti più inverosimili. Tra' volontari, cui fa sempre un po' difetto il sentimento della disciplina, la propensione naturale alla critica si sfoga in chiare note, non monta se a ragione o a torto, per ogni più lieve cosa, per ogni più futile motivo; e la vittima designata, è sempre lo stato maggiore.

     In omaggio alla verità devo soggiungere, che lo stato maggiore ci fa presto il callo; ma questo non esclude, che di noie e di seccature esso ne abbia fin sopra i capelli.
     A noi della brigata incombeva un lavoro veramente eccezionale. Oltre a dirigere l'andamento normale delle truppe, ci toccava completare l'organizzazione, promovendo gli arrolamenti; preparare e far seguire senza interruzione il corredo, le vesti, le armi necessarie per le nuove reclute, ordinandone la istruzione; arrestare i disertori, che nelle nostre file, per le condizioni dei nostri ruoli, erano pur troppo frequenti. Bisognava istituire magazzini, impiantare ospedali, inviare distaccamenti a sedar turbolenze, mantenere continui rapporti con le autorità e con le tesorerie locali, su le quali il comando aveva poteri larghissimi. E a tante faccende occorreva supplire con mezzi inadeguati, senza personale tecnico, in un paese nuovo, marciando sempre. Pure, partiti da Palermo con tre magri battaglioni, una compagnia sottile di stranieri, due piccoli cannoni, un embrione di intendenza e di ambulanza, in meno di quaranta giorni, attraversando la Sicilia, cioè percorrendo duecento trenta miglia e più, avevamo a Messina: quattro battaglioni completi di fanteria, divisi in due reggimenti; un battaglione di bersaglieri, armato di carabine Enfield; sei pezzi di artiglieria, col loro servizio; un distaccamento del genio, che avevamo contradistinto con uniforme azzurra; un drappello di guide a cavallo; una legione ungherese, vestita, alla foggia d'Ungheria, con le tuniche di panno ad alamari, con i berretti terminati a punta col fiocco, ripiegata sul lato destro; infine, una compagnia estera completa. L'intendenza funzionava oramai, in modo da poter fornire a ogni soldato il rancio, mentre in origine non si distribuiva loro che il denaro corrispondente alla razione. L'ambulanza, da ultimo, era ordinata nel pieno suo assetto, perché provvista di muli, di barelle, di tutto ciò, o quasi, che le occorre. Uscimmo di Palermo con circa cinquecento uomini; al momento di passare in Calabria ne contavamo intorno a' tremila.


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Umberto