essa, a tempo debito, il colpo decisivo. Le notizie dal campo di battaglia arrivavano una dopo l'altra, ora liete ora tristi, spesso contradittorie; la prima non era ancora propalata, che già si aspettava con ansia una seconda. Tacevamo irrequieti; appena si arrischiava un commento sommesso.
Finalmente, dopo il mezzodì, un dispaccio di Garibaldi chiamò a Santa Maria, come Turr aveva suggerito, tutta la riserva. Turr e Sirtori, con la brigata Milano, ci precedettero in un treno della ferrovia. La brigata Eber, al grido di “Viva Garibaldi!” accesa dal racconto dei pericoli corsi dal dittatore a Sant'Angelo, mosse al passo di carica dietro al Rustow. Si faceva tardi; Turr spiccava messaggi su messaggi per affrettar la marcia: e noi avremmo voluto aver l'ali ai piedi. Poco prima di Santa Maria spronai il cavallo, per andare ad avvertirlo del nostro arrivo. Un bel momento!
I volontari, che avevano combattuto fino allora, rientravano stanchi in città, riportando i feriti. Incontrai mio cugino, Giulio Valerio, imberbe giovinetto, che ritornava affranto, ma sano e salvo, dopo lunghe ore di fuoco: mi congratulai in fretta con lui; “e ora a me”, gli dissi allegramente, proseguendo di trotto verso l'arco di Porta Capuana.
Le palle borboniche penetravano fin dentro Santa Maria, schiacciandosi contro i muri delle case. Due pezzi di artiglieria postati al di fuori, dietro una barricata, tenevano, oramai soli, spazzata la via del nemico, che minacciava irrompere. L'ufficiale garibaldino, che li comandava, un De Vecchi di Gavirate, salutandomi mi disse: “Siete proprio arrivati in tempo, chè la faccenda incominciava a diventar seria; per fortuna abbiamo avuto questi bravi giovani, che, come vedi, fanno miracoli”. E mi additò una diecina di artiglieri piemontesi, i quali, venuti da Napoli, avevano a noi offerta l'opera loro, e maneggiavano i pezzi con abilità pari all'ardore da cui erano animati.
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