A Napoli ci recavamo di rado e per poco. Prima di tutto ci mancava il tempo; poi, la violenta agitazione politica, l'impeto delle passioni a favore o contro l'annessione immediata, le mene dei partiti, rappresentati dal Pallavicino, dal Depretis, dal Lafarina per un verso, dal Mazzini, dal Bertani, dal Crispi per l'altro, non andavano troppo a genio di noi uomini d'arme. Quelle eterne dimostrazioni in tutti i seni, sempre accompagnate dal “viva l'Italia una!”, che si gridava a squarciagola con l'indice della man diritta levato in alto, c'infastidivano solennemente. E sopratutto mal potevamo sopportare in pace quella vera falange di pseudo garibaldini, nelle fogge più strane del mondo, dalla facondia petulante, i quali ingombravano da mattina a sera tutti i luoghi di ritrovo. Si raccontava finanche di un tale, che non credendo abbastanza viva e smagliante l'uniforme garibaldina, aveva scambiata la camicia rossa con la divisa del reggimento Savoia Cavalleria, recentemente arrivato in Napoli, e passeggiava per via Toledo, superbo dell'elmo e delle spalline, affatto noncurante dello stupore degli ufficiali, che non sapevano capacitarsi di questo nuovo camerata ad essi ignoto.
Quando venivamo alla capitale per obbligo di servizio, riparavamo alla Foresteria, quartier generale di Turr, comandante la piazza, sicuri di un'accoglienza larga, ed amichevole. E subito ci rifugiavamo di nuovo nella quiete di Caserta ove pure non faceva difetto la gente torbida e spavalda, immancabile in tanto numero di volontari, ma in proporzioni di gran lunga minori, e facilmente tenuta in rispetto. |