Io venivo a Napoli solo per abbracciare i parenti e gli amici, arrivati dall'alta Italia; per intrattenermi con Benedetto Cairoli, cui Bertani aveva bensì conservata la gamba, ma Dio sa come, a prezzo di quali e quante sofferenze; e infine per stringere la mano ai commilitoni del mio vecchio reggimento, quel di San Martino, con i quali avevo mantenuto corrispondenza, se non attiva, non interrotta. Sempre che ci si presentava l'occasione, ci ricercavamo da buoni camerati; ma guai se si toccava il tasto della politica! ognuno allora scattava, appassionandoci di Garibaldi, de' suoi ministri, dell'esercito meridionale, dell'annessione immediata, del programma nazionale non compiuto; e nella disputa ci si accalorava terribilmente. Il conte Rinaldo Taverna, mio antico superiore nei granatieri, mi ricordava non è molto una passeggiata che si fece insieme a Chiaia, ne' viali della Villa, durante la quale la discussione si animò e durò a lungo, lasciandoci però amici come prima.
Il cumulo dei volontari disoccupati, impazienti di andar via, dava luogo anche in Caserta a incidenti incresciosi. La legione inglese, cui, perché sue, non s'eran volute togliere le armi, continuava imperterrita le sue imprese, finchè, dopo una baruffa indiavolata con i nostri già disarmati, essa venne relegata a Salerno. Nacquero ancora frequenti risse, non senza vittime d'ambo le parti, fra borghesi muniti di pugnali e garibaldini provvisti di coltelli e di nodosi bastoni. E questi fatti, ingigantiti dalla fama nel breve cammino che separa Caserta da Napoli, diventarono per gli uni proteste feroci di reazione, per gli altri prove non dubbie della tracotanza garibaldina. In realtà la politica non c'entrava per nulla. |