Ma il prestigio de' nostri quattro angeli tutelari ci salvò ancora una volta dal mal passo, e non avemmo a subire altre angherie fuor che le solite della maffia.
Il nostro morale però non fu punto sollevato dopo l'arrivo a Palermo, perché tutti i nostri amici siciliani e non siciliani, tra i quali ricordo il marchese d'Ajello e l'ingegner Guaita, ci dipinsero la situazione con le tinte più fosche, dicendo che il Generale e i suoi fidi erano seguiti da una turba di picciotti male armati e indisciplinati, sui quali non si poteva fare assegnamento. E sin qui poco male. Ma ci dissero inoltre, che il governo aveva deciso di arrestarlo ad ogni costo, che le truppe regolari lo circondavano, e che anzi pareva fosse già avvenuto uno scontro tra garibaldini e soldati: cosa, che “mi dava i brividi”, come scrissi a mia madre, soggiungendole, per meglio farle capire la dolorosa impressione, che “l'idea di una guerra civile quasi mi spingeva a tornarmene”; sebbene tale proponimento non abbia mai allignato seriamente nel cervello, martellato da quei: “vi aspetto”, pronunziato da Garibaldi poche settimane prima, che non mi dava pace, e che anzi mi rendeva sempre più ansioso di vedere il Generale e di udire una parola da lui.
Mentre noi ci davamo attorno per raggiungerlo, i nostri deputati, dei quali ci eravamo costituiti gli aiutanti di campo, accudivano alla missione politica, resa loro meno ingrata dalle accoglienze, che Palermo aveva loro preparate: entusiastiche da parte della popolazione, onorevoli da parte delle autorità, che si auguravano dai loro savi consigli un'azione moderatrice.
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