Finalmente, alle 2 antimeridiane del 17, si entrò a Regalbuto, nel campo garibaldino; ove, malgrado l'ora mattutina, i rappresentanti della nazione, che procedevano innanzi, vennero quasi assaliti dai volontari, avidi di novelle, desiderosissimi di un po' di luce in mezzo a quel buio pesto. Ma che cosa potevano mai rispondere, i nostri deputati? “È un grande imbroglio”, disse loro un giovinotto, saltato sul predellino della carrozza. “Né voi, né noi, sappiamo nulla: la chiave del segreto non l'hanno che Garibaldi, Vittorio Emanuele, e Napoleone III”. Frase espressiva, che dà una idea della confusione delle menti in que' giorni di tanta confusione!
Il generale, levatosi poche ore dopo il nostro arrivo, ci apparve pieno di speranze, e con il solo suo aspetto tolse via dall'animo de' deputati gran parte della loro fiducia: altro che dissuaderlo dalla impresa! Essi, accompagnandolo durante la marcia delle prime ore, e scrutandone le intenzioni, cercarono sì di commuoverlo, ma egli si schermì, con quella finezza tutta sua: e quando a Centorbi tornarono all'assalto, egli dichiarò loro categoricamente, che avrebbe fatto ogni sforzo per evitare un conflitto con la truppa, ma (come scrive il Cadolini) “non si sarebbe mai lasciato togliere la sciabola dal fianco”. Non era più il caso di nutrire il minimo dubbio. E però, convinti della perfetta inutilità di ogni altro tentativo, la sera stessa i nostri deputati ripresero in vettura la via di Catania.
Tallachini aveva la fortuna di non esser tormentato da scrupoli di sorta; ma Frigerio ed io, nella terribile ansietà di trovarci di fronte ad armi italiane, non avevamo fatto altro, da Palermo in poi, che fantasticare nuovi disegni, fra' quali perfino quello di dichiarare francamente al generale, che la nostra coscienza non ci permetteva di esporci al rischio di versare sangue fraterno, e che saremmo tornati alla costa ad aspettarlo, pronti ad accorrere
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