I soldati, giunti al limite inferiore del piano inclinato e scoperto, si spiegano in catena: le quadriglie si avanzano rapidamente: l'istante fatale è scoccato: di qua e di là partono le fucilate.
Garibaldi fa suonare dalle sue trombe il segnale: “cessate il foc” ma non gli basta; chiama per nome me ed altri, e c'ingiunge di percorrere la linea dei nostri, in tutta la sua lunghezza, per ripetere a tutti l'ordine di non far fuoco. Correndo fra i greppi, e gridando ai comandanti, ai volontari, il volere del generale, io arrivo all'estremità, assai lontana, dell'ala destra, mentre la catena delle quadriglie sale, sale sempre.
Compiuta la missione, in un tempo necessariamente non breve, retrocedevo per raggiungere di bel nuovo Garibaldi, mentre udivo i colpi secchi delle palle ne' tronchi degli alberi circostanti, quando un ufficiale dei nostri mi viene incontro e mi dice: “Garibaldi è ferito ed è prigioniero; tutto è perduto. Proseguo, affrettandomi; altri mi confermano l'avvenimento funesto, aggiungendomi, a brevi parole, la narrazione di episodi, ora fierissimi, ora commoventi, al primo incontro fra soldati e volontari. Da una radura della foresta vedo in distanza un gruppo di giubbe di tela e di cappelli piumati, in mezzo a cui spiccano le camicie rosse; mi si dice che laggiù sia Garibaldi, al quale stanno medicando il piede trapassato da una palla. Intanto il fuoco va cessando.
M'imbatto con Frigerio, ansante, spedito anche lui dal generale a recare i suoi ordini ai nostri battaglioni. Ci consultiamo: che fare? Ci avviamo verso il gruppo, che attrae l'attenzione di tutti. Altri se ne staccano, ci passano a fianco concitati, ci esortano a fuggire; da essi raccogliamo, a brani, la notizia di quanto è accaduto.
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