La verità è più semplice. Il Castellini fece a Vezza, come sempre, il suo dovere di comandante, rimanendo in mezzo alle compagnie senza spavalderia e senza paura, ordinando, provvedendo, pagando, se occorresse, di persona: e cadde, come cadono i forti nelle battaglie.
La tela bianca del berretto, che egli solo usava, il cappottone oscuro, i galloni d'oro alle maniche, l'alta persona, attirarono sopra di lui l'occhio del nemico. Ferito al naso, non se ne diede neppure per inteso; passò il braccio sotto quello dell'aiutante maggiore Mantegazza, e continuò ad impartire freddamente il comando. “Ouii, ghe n'è un'altra”, si accontentò di soggiungere, quando la seconda palla lo colpì sopra il gomito; e non se ne curò più che tanto. Staccatosi poi dal Mantegazza, per esaminare una posizione, stramazzò fulminato in pieno petto, frammezzo ai due intrepidi trombettieri piemontesi, che non si scostarono da lui un solo istante.
Pochi, durante l'azione, conobbero la sua morte: ufficiali e bersaglieri continuarono a combattere, gareggiando di audacia e di sangue freddo, grazie allo spirito di abnegazione, che il valoroso comandante aveva loro saputo infondere nell'animo. L'ultimo assalto del villaggio, che si condanna come insensato, venne dato dal battaglione, ormai ridotto troppo sottile, quando il Castellini era già morto.
Quell'assalto disperato, che fece maraviglia anche ai nemici, non ha bisogno di giustificazione, chè tutti, militari o non, intendono, che allora si trattò di una di quelle inspirazioni che salvano da un mal passo. E io benedirò sempre al Castellini, il quale seppe imprimere ai bersaglieri quello slancio, che li portò a caricare senza contarsi, senza ragionarvi su, per un profondo sentimento del dovere, in obbedienza agli ordini ricevuti.
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