Nell'inverno successivo, a Washington, conobbi personalmente l'ammiraglio Tegethoff, e capii allora, forse meglio che nei libri, la battaglia di Lissa.
“Perdonami la bestemmia” scrivevo a mio padre il 12 febbraio del 1867, la sera stessa del primo incontro: “dopo Garibaldi, pochi uomini di guerra hanno destata in me tanta simpatia quanto l'ammiraglio Tegethoff. Ne ha anche molto la figura, la dolcezza dello sguardo e dei modi. È anche lui uno di quegli uomini predestinati a inspirare vera e sincera devozione. Ha molto spirito, e di buona lega. È ammiratore dell'America, delle sue libertà, della sua democrazia, e su questo punto ci siamo trovati perfettamente d'accordo, ciò che finora non mi era mai accaduto con gli europei di fresco sbarcati qui. In mezzo alle adulazioni, cui è fatto segno, come avviene a tutti i favoriti della vittoria, si serba modesto, senza affettazione; ma se ne indovina facilmente l'altissimo cuore, la natura eletta, l'intrepidità innata. Gli toccai di Lissa; ed egli, concisamente, dopo avere attribuito tutto il merito del successo alla fortuna (chances de la guerre), mi descrisse la impressione straziante, che provò al vedere il Re d'Italia sprofondare fra' vortici delle onde, mentre i marinari figgevano spasmodicamente le unghie negli assiti del ponte, che loro mancava sotto, e si aggrappavano disperatamente alle ultime cime degli alberi, che si andavano sommergendo. Parlammo anche un po' della politica dei nostri paesi; egli dice, che abbiamo tutti bisogno di pace. Spero incontrarlo ancora negli Stati Uniti”.
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