Giulio Adamoli
DA S. MARTINO A MENTANA
(Ricordi di un volontario garibaldino)


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     Noi bestemmiavamo lassù come ariani. I commilitoni laggiù parlavano della nostra sparizione come di un maleficio di stregoneria, formando le congetture più peregrine di questo mondo. I messaggeri facevano la fine del corvo; e non essendoci possibilità d'intesa fra lo stato maggiore e il Cadolini, quell'imbroglio inesplicabile minacciava di protrarsi indefinitamente.
     La do in cento a indovinare chi per il primo ci portò un po' dl luce.
     Il mattino del 25 luglio, quando tutta una settimana di soggiorno al lago aveva spinta la impazienza fino al parossismo, gli avamposti di Campo di sotto segnalano un borghese, che sale da Valle di Daone, là onde noi, ignari della vittoria de' nostri a Bezzecca, temevamo una sorpresa da parte degli austriaci. Accorriamo a incontrarlo. Chi sarà mai? Era mio padre!

     Mio padre, seguendo lo stato maggiore di Garibaldi, aveva saputo del dispaccio spedito al Cadolini, e ci aspettava fiducioso. Ma scorrendo inutilmente i giorni, cominciò anche lui ad essere inquieto, e forse più degli altri, chè non il patriottismo soltanto ma un sentimento più intimo lo faceva palpitare. Chiedeva notizie di noi a Guastalla, a Cairoli, a quanti incontrava; e tutti naturalmente rispondevano di saperne meno di lui. Garibaldi, quando vedeva mio padre aggirarsi nel campo, e mettere l'occhio al cannocchiale, che non abbandonava mai, diceva: “ecco Adamoli, che cerca suo figlio sulle montagne”.
     Una volta, fermatosi a salutare mio padre, egli soggiunse: “aspettate sempre vostro figlio? Egli deve essere là, in cima a quella valle”; e accennava a Val Daone.


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Umberto