Del nostro misterioso soggiorno su per i ghiacciai, e della leggenda di Vezza, ci ruppero talmente le tasche gli amici e compagni dei reggimenti, ai quali ci riunimmo, che alla lunga li evitavamo per non esserne più oltre annoiati. Ma quando Garibaldi ci passò in rassegna a Condino, e il battaglione, da me comandato, sfilò spigliatamente, preceduto dalla brillante fanfara, sotto il balcone, su cui era il generale, tutti dovettero ammirarne la bella tenuta e l'aspetto marziale. Garibaldi ci fece i complimenti più lusinghieri, e da ogni parte piovvero a noi le congratulazioni.
Pochi giorni dopo, i trentini del battaglione, circa una quarantina, insieme col tenente Fontanari e col Cantoni, sempre vago di avventure, venivano segretamente posti a disposizione di Egisto Bezzi, il quale coadiuvato dagli ufficiali suoi conterranei, il Manci, il Martini, e il Filippini, dovevano penetrare, con armi e munizioni, in val di Ledro, e promuovervi la sollevazione. Ma la fazione non ebbe seguito, e i bersaglieri ritornarono all'ovile.
Aggiratici qualche tempo su le sponde del lago di Garda, finimmo per accantonarci a Rezzato: e dopo non poche settimane neghittose, il battaglione dei bersaglieri milanesi venne sciolto.
CAPITOLO VIII
IN ROMA
(1867)
Prima di raccontare in questi ultimi capitoli come andassi due volte a Roma e come raggiungessi Garibaldi per partecipare all'atto finale del dramma nell'Agro romano, mi si consenta di riferire un dialogo, che ebbi a Londra con Giuseppe Mazzini; non tanto perché esso si connette ai moti insurrezionali, che appena ricominciavano, quanto perché mi offre il destro di far nota la impressione, che in me produsse quell'uomo straordinario.
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