Ripartivo per Firenze a fine di sollecitar nuovamente la spedizione delle armi, impetrar quattrini, e tornarmene subito a Roma. Quanto alle armi, il comitato stava provvedendo con la massima alacrità. Ma quanto a quattrini, poichè mancavano affatto, mi si disse chiaro, che se ne volevo, dovevo cercarmeli; e però mi si mandava in Lombardia a batter cassa, munito della lettera seguente:
“Firenze, 7 ottobre 1867.
“Egregio Cittadino,
“Non abbiamo a dirvi l'urgenza dei soccorsi agl'insorti romani. La vittoria sta nel rapido agire, e quindi l'obbligo nostro consiste nel rapido aiuto; per ora unicamente di denaro. V'incarichiamo di raccogliere e di costituire Comitati di soccorso, ove non sieno già costituiti. Non raccomandiamo zelo e sollecitudine; conosciamo il vostro intelligente ed operoso patriottismo, e quello dei benemeriti cittadini, ai quali vi dirigeste per incarico nostro.
“Pel Comitato centrale
“BENEDETTO CAIROLI.
“All'egregio cittadino Giulio Adamoli”.
Andai di mala voglia, e non raccolsi quasi nulla. I sottocomitati, organizzati da un pezzo in Lombardia, facevano magri affari, né io, certo, avrei saputo galvanizzarli. I democratici avevan già offerto il loro obolo; i moderati non ne volevan sapere, finché non fosse noto che il ministero approvava le collette. Un giorno, al caffè Pini, sotto i portici di Varese, mi affannai a persuadere alcuni villeggianti che il governo, sebbene non potesse palesemente appoggiarci, non aspettava altro che l'annuncio della insurrezione per intervenire e occupar Roma militarmente, sotto il pretesto di ristabilir l'ordine; che quindi bisognava far presto, non perdere un minuto, prevenendo lo sbarco dei francesi, chè solo dinanzi al fatto compiuto Napoleone III ci avrebbe pensato due volte prima di muoversi; e che infine, per provocare cotesta insurrezione, desiderata dal governo e da tutti i partiti, occorressero denari, denari, e sempre denari.
|