Guerzoni ed io, il mattino del 29 ottobre, ci accomodammo in una vettura, mandataci all'albergo dai fratelli Sebasti, buoni patrioti, che tenevan servizio di carrozze in piazza Clementina: e disposti i plaids, i binoccoli, le guide, annunciato al signor Valenti (il quale, del resto, aveva subodorato l'esser nostro), che saremmo rientrati dopo una escursione ad Albano, ordinammo al cocchiere di frustare i cavalli, e via.
Uscimmo per porta Maggiore, senza difficoltà, grazie al lione e al liocorno impressi in cima al passaporto, e pigliammo la via di Frascati, traverso quella campagna romana, di cui, anche con lo spirito preoccupato, non è possibile non ammirare la maestà insuperabile: quella campagna romana, che, secondo il detto del duca Onorato di Sermoneta, forma, insieme con il golfo di Napoli e i laghi lombardi, la triade più meravigliosamente originale di tutto il dolce paese d'Italia.
Contornando quindi le falde di que' colli, che popolati di vigne e di uliveti, tanto degnamente inghirlandano la pianura, per una strada traversa raggiungemmo cascina Finocchio, ove la presenza di alcuni innocui gendarmi pontifici non ci produsse altro che una ingrata sorpresa passeggera. Al ponte Lupano, ai piedi di Tivoli, facemmo colazione; poi, passato Fornacci, smontammo di carrozza alla tenuta di Marco Simone, ivi accolti dal proprietario in persona, Felice Ferri, più tardi mio collega alla Camera, il quale, messici a cavallo di due mule, ci affidò a un suo buttero intelligentissimo, di nome Venanzio, che Guerzoni mi rammentava poi sovente.
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