Ma Garibaldi, sia per una sua idea preconcetta, sia, come altri afferma, dietro certe informazioni avute da Parigi, era intimamente convinto, che i francesi non avrebbero marciato contro di lui: e però non credette al messaggio del Cucchi, malgrado la sua categorica precisione. Passò semplicemente il foglietto al Bezzi, di guardia quella notte al quartier generale, dicendogli di ricapitarlo a Menotti; e non aggiunse altro.
Ai primi albori, il Generale montò nuovamente su la torre, accompagnato da Basso, Bezzi, Guerzoni e pochi altri, e per più di un'ora esplorò ogni angolo della campagna in direzione di Roma. Non vedendo apparire il nemico, forse perché le strade incassate lo nascondevano si volse al Bezzi, e disse: “io non credo che i francesi vengano ad attaccarci. Ci manderanno, per mezzo del nostro governo, l'intimazione di sgomberare...., e nel frattempo noi saremo a Tivoli, con le spalle appoggiate agli Abruzzi”.
A' piedi della torre incontrò Menotti, che lo cercava per chiedergli d'indugiare la partenza, onde potesse avere il tempo di distribuire certe calzature, che aspettava da Passo Correse; e Garibaldi, accecato dalla sua fatale illusione, gli rispose: “Fa pure, Menotti”. Così rimanemmo a Monterotondo sino a mezzogiorno.
Io, dopo aver accompagnato Garibaldi durante le prime ore del mattino, ed aver poi fatta colazione dall'amico Boccomini, il medico del nostro battaglione del 1866, mi misi in compagnia del Bezzi, al seguito della colonna, nell'unica carrozza esistente, che aveva portato a Monterotondo, quella stessa mattina, il capitano Benici, aiutante di Nicotera, mandato da Velletri a farci avvertiti, che a causa dei dissidi insorti fra Orsini e Nicotera, avendo questi abbandonato il comando, la congiunzione, già ordinata da Garibaldi, non si poteva più effettuare.
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