Per spontaneo cavalleresco impulso, accorrevo, come antico cavaliere, dove c'era da sostenere un debole, da eliminare un sopruso, da rintuzzare una violenza. Ero buono, ma non sopportavo prepotenze. Avvalendomi della forza, superiore alla mia età, e del coraggio che non mi mancava, reagivo, in ogni occasione, energicamente.
Un giorno, ad esempio, tornando da uno dei nostri terreni, dall'alto di una collina, da piccoli pastori, che pascolavano le pecore, mi si lanciavano sassi.
Li raggiunsi. Erano in tre e più grande di me. Mi lanciai decisamente su di loro, e li tempestai, senza che avessero la possibilità di reagire, di pugni e di calci.
Avevamo un terreno, il più lontano, con molti mandorli. D'estate spesso vi andavo, e penetravo da solo in un vicino bosco.
Godevo di quella solitudine, di quel silenzio, rotto, di tanto in tanto, dal canto del cuculo che mi giungeva come gradita voce amica.
Non sorgeva a distrarmi il pensiero delle deità silvane, non essendo allora a me nota la fantasiosa allegra mitologia degli antichi. Tutto, nulla meno, pareva che là dentro possedesse vita, avesse dolce poetica voce: le erbe, i fiori, gli alberi. S'avvertiva che un mondo di piccoli esseri, dai volatili ai rettili, vi viveva in continua laboriosità, forse con le stesse nostre passioni, con gli stessi nostri affanni; forse anche, come le formiche e le api, in ordinata disciplinata associazione.
Ero ragazzo, ma nella mia sensibilità capivo quelle bellezze, e rimanevo in mesto raccoglimento dinanzi all'inno che pareva si elevasse da tutte le cose, per il loro divino creatore.
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