Doveva trattarsi d'un fuoco fatuo, di cui non avevamo ancora cognizione. Ad ogni modo quel cimitero, da quella volta, non ci vide più di notte, in veste di fantasmi.
Qualche monelleria la facevo pure da solo, come quella che mi teneva lontano, per l'avvenire, da un vizio molto comune.
Rinvenivo un giorno su un tavolo della casa un mozzicone di quei sigari toscani, che usava fumare il babbo. Lo prendevo, lo rimiravo, lo portavo alla bocca, lo accendevo con molto sussiego. Andavo poi dinanzi allo specchio per riguardarmi, mentre fumavo, nelle mosse e nelle smorfie. Non smettevo, nonostante il disgusto, se non quando lo stomaco, delicatissimo, non ne era sconvolto, ed i mobili, la stanza ed ogni cosa in vista, non iniziassero un movimento rotatorio molto fastidioso.
La mamma, giunta nella stanza, mi trovava in condizioni pietose. Lo stomaco, intanto, bene irritato, tra le mie sofferenze, restituiva quanto era in sua custodia.
Le molestie di quell'esperimento mi restavano così vivamente impresse da farmi considerare il fumo, in seguito, con la più forte ripugnanza.
Parlando di me, aggiungo che a Tempera avevo scelto i piccoli amici tra i ragazzi migliori. Mi piaceva, anche in quell'età, in tutto, una certa compostezza. La sera, anche se costava un qualche capitombolo, spesso partecipavo alla cavalcata degli asini, condotti all'abbeverata sul fiume.
Ero per natura d'indole buona. Avevo molto rispetto per le donne, per i vecchi, per i poveri. Mi ritenevo ben fortunato quando potevo rendere loro un servizio. In istrada salutavo tutti, come superiori.
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