Un eremita, o tale si voleva far credere, Filippo, dai capelli lunghi e dalla fluente bianca barba, dava ad una di quelle terre, Pallone, un non so che di antico. Abitava, con mistica tradizione, in una grotta, che egli stesso s'era scavata, ai fianchi della collina pietrosa, che sorgeva nel mezzo. Vi passava in penitenza ed in preghiera una parte dell'anno, dormendo su un rustico letto.
Un risorto anacoreta, dal religioso fanatismo del medioevo!
Noi, che ne avevamo molto rispetto, quando vi andavamo, lo visitavamo anche per udirne i sermoni, le sentenze, l'aspra critica contro i pavidi, i falsificatori, i rinnegatori delle divine leggi.
Vi andavamo per udirne pure fiabe e racconti bizzarri di spiriti vaganti, di streghe in agitata tresca, di strani giganteschi esseri, talvolta luminosi, che egli stesso vedeva nel cuore della notte, aggirarsi minacciosi, nella contrada.
Quei racconti ci divertivano, si, ma ci inducevano a lasciare il posto prima del tramonto. Se le ombre della sera ci coglievano lungo il cammino, mentre le campane del villaggio suonavano l'Avemaria, guardandoci intorno con un certo sgomento, allungavamo il passo.
Come tutti i ragazzi anche noi talvolta eravamo bizzarri. Tornando a notte da quei nostri terreni ci introducevamo qualche volta, vincendo la paura, nel cimitero, che s'incontrava lungo la strada. Indossando qualche cosa di bianco, ci volevamo far credere, ai passanti, fantasmi usciti dalle tombe. Una sera, però, molto umida, restammo noi stessi gabbati. Nel mentre ci apparecchiavamo, da una tomba di fondo vedemmo d'improvviso elevarsi una fiammella, muoversi, venire verso di noi. Ci sentimmo gelare il sangue nelle vene, poiché quella fiammelle rappresentava per noi davvero lo spirito di un qualche defunto. Nella confusione e nella paura non ritrovavamo la via d'uscita. Una volta fuori, senza più volgerci indietro, ci lanciammo, a gambe levate, verso il villaggio, ove giungemmo trafelati, con i brividi della febbre addosso.
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