Anche nel napoletano, quindi, le cose non andavano bene. Ad un tratto, anzi, vi avveniva un peggioramento.
Un pomeriggio, andando in giro, udivo che un figlio naturale dell'industriale Adamoli, rivolgeva al fratello Vincenzo una delle solite sconce parole, tanto in uso nel popolo napoletano. Prima che Vincenzo si movesse, io, toccato nei delicati sentimenti, lo avevo già schiaffeggiato. Non avendo il coraggio di reagire, quantunque a me maggiore d'età, correva ad invocare l'intervento della madre, e si iniziava la zuffa.
In mio aiuto correva il fratello Antonio; in aiuto della megera, essendo entro il recinto di uno degli stabilimenti ove spadroneggiava, correvano i fratelli, i nipoti, i parenti, che con essa convivevano. La indemoniata era per primo colpita, con un bastone, alla testa; poi un fratello; poi un nipote. Urla si elevavano qua e là, e rumore di percosse. Antonio, che aveva un coraggio leonino, guardato alle spalle da me, che non tremavo, teneva validamente il campo. Nel mentre un fratello della furia, con un aggiramento, stava per colpire con un martello Antonio alla testa, riceveva a sua volta da me, con un ferro con forza lanciato, un colpo nelle vicinanze della tempia sinistra, e cadeva a terra, sanguinante. Mentre accorrevano a soccorrerlo, approfittando della confusione, ci allontanammo, per andarci a rifugiare, in altra frazione, in casa del parente De Ippolitis.
L'accaduto destava, nella contrada, molto rumore e favorevoli commenti per noi. Per noi, che avevamo osato di rompere l'incanto che circondava il covo della furia, da tutti temuta; che avevamo osato, in quello stesso covo, d'affrontare la ciurmaglia dei parenti, che vivevano, come bravi, su i suoi mali costumi; che avevamo rotto, in condizioni difficili, molte loro teste.
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