Quando uscimmo, che era già notte, e riprendemmo la via di casa, che era a tre chilometri, maggiormente si fece sentire l'effetto del vino. Un cerchio mi cingeva spiacevolmente la testa, non mi reggevo sulle gambe, grossa sentivo la lingua, in rivolta lo stomaco. Non avendo la forza di proseguire, a un venti minuti di strada mi gettai su un mucchio di ghiaia, ove avveniva... ciò che doveva avvenire.
Il burlone dio Bacco m'aveva fatto un brutto scherzo, ma me ne vendicai. Non mi ebbe più in seguito, neppure lui, come il dio tabacco, nel numero dei suoi seguaci.
Poteva essere stata quella fiera, con tutto il mio infortunio, uno svago per noi, ma niente altro.
Io continuavo a fare, delle nostre modeste sostanze, l'amministratore. Poiché non m'era possibile frequentare una scuola, oltre i libri di cultura generale, leggevo storie, poemi, romanzi, che ricevevo a dispensa, per abbonamento, con belle illustrazioni. La domenica, mentre il babbo ed il fratello andavano in città, io rimanevo solo, nel silenzio festivo di quell'eremo, raccolto in quelle letture. Penetravo, in tal modo, con esse, con la riscaldata fantasia, nel brulicume, nei misteri, nei delitti delle corrotte grandi città; o assalivo, con i ferrati cavalieri, i ben muniti castelli, ricchi di liete leggende, spesso anche covi di malefici.
Cantavo pure, nelle chiare notti di luna, sotto le merlate dimore, alle belle, che vi vivevano solitarie, nei loro sogni d'amore.
Elevavo, fortificavo il mio animo, con quei romanzi, con quei poemi, che erano usciti dalla fervida fantasia di Giulio Verne, di Alessandro Dumas, di Eugenio Sue, di Vittor Hugo, di Tommaso Grossi, di Massimo D'Azeglio, di Alessandro Manzoni, di Edmondo De Amicis, di Torquato Tasso, di Ludovico Ariosto, e di tanti altri.
|