Dicevo di lei, nella stanza ardente, in un mio taccuino, che conservo religiosamente:
"Povera sorella! Troppo presto la parca inesorabile ha troncato, nei tuoi quindici anni, la santa tua giovinezza. Tu passavi tra la gente, che t'ammirava, avvolta di dolcezza e di poesia, con leggerezza d'un angelo. Troppo buona eri, troppo mite per poter rimanere a lungo su questa terra d'inganni. Tu te ne sei andata, sorella, lasciando nel nostro cuore una ferita profonda. Ovunque io vada, vicino e lontano, nel tumulto delle città e nel silenzio delle campagne, porterò sempre vivi nel mio cuore, la tua immagine d'angelo e quel soave sorriso, con il quale ieri m'accogliesti nel tuo letto di morte.
Penserò sempre, dolce sorella, che nel cimitero solitario e silenzioso della vallata degli ulivi, in questa contrada profumata d'aranci, tu dormi, nella tua eterna giovinezza, l'eterno sonno."
Restavo vicino alla mamma, che si dimostrava inconsolabile, un mese. Non valevano tutte le mie parole, le mie cure, il mio affetto a distrarla dal dolore, che l'annientava. Spesso si doveva andare a riprenderla, dopo il tramonto, al cimitero ove si recava sola per rimanere, in lagrime e in preghiera, accanto alla tomba che raccoglieva la cara figliuola.
Non trovava questa volta, la buona mamma, neppure nella religione, essa tanto religiosa, la via della rassegnazione.
Nei momenti di calma, nelle ombre della sera, aveva con me lunghe conversazioni. Nel ricordare le vicende della sua vita, dalla giovinezza felice alla maturità tormentata, concludeva sempre col dire che la tempesta, che da tempo infuriava sulla nostra casa, non si sarebbe calmata se non con la sua scomparsa. L'erta, secondo lei, non poteva essere risalita se non dopo toccato, con tutti i rottami, il fondo della valle maledetta. E faceva per noi, con spirito profeticamente acceso, che molto colpiva, confortevoli pronostici.
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