Le veglie, nelle notti d'ansia, duravano a lungo. Quanto diverse da quelle veglie serene, nelle notti di neve, nella casa felice di Rocciano. Lą la vita si presentava con i colori rosei dell'aurora, qui con le ombre nere del tramonto.
Giungeva, intanto, il giorno della partenza. Nella separazione dolorosa la mamma buona mi stringeva nelle braccia, che non voleva sciogliere, e mi baciava con calde lagrime. Forse sentiva che la vita le mancava; sentiva anche lei, come il babbo, che non ci saremmo pił rivisti su questa terra.
Tornavo a Firenze senza pace, con l'animo in tumulto, con il pił nero presentimento. Poco sopravviveva a quest'ultima sventura la buona mamma, martire santa del pił grande amore materno. Io non ero presente al tramonto. Avevo gią goduto nell'anno il massimo della licenza; non ne potevo avere, per una barbara disposizione, altra.
Se non con la persona, ero stato a lei vicino, nell'ora estrema, con tutto il mio dolore. Ed essa, facendo il mio nome, l'aveva sentito, ed il suo spirito, appena libera, veniva a me, a confortare la mia angoscia.
Il chiarore tenue dell'alba, nel novembre malinconico, penetrava gią nella camera silenziosa. Vegliavo, o quasi, sul mio affanno, con il pensiero fisso alla mamma morta. Ad un tratto un leggero fruscio, come di aria tra le foglie, mi colpiva. Guardavo, ansiosamente. Dalla parte della luce vedevo un'ombra che s'avvicinava con la leggerezza d'un fantasma. Era la mamma, vestita di bianco, sana e bella, come nella sua serena giovinezza, che veniva a me. Mi guardava, quando mi giungeva vicina con un tenero sorriso e mi parlava della sua beatitudine, che diceva di godere e mi confortava. Tendeva la mamma le braccia ed io sentivo quasi, come quella d'un soffio d'aria, la carezza delle tenui mani.
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