T. Col. Umberto Adamoli
NEL ROMANZO DELLA VITA (MEMORIE)


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     Lo zio, quantunque la chiesa e le leggi civili vi fossero favorevoli, non concepiva che due cugini potessero sposarsi, e rimaneva talmente scosso del fatto da ammalarne seriamente. Desiderava poi che io mi ritirassi, assicurandomi l'avvenire con una atto di donazione di tutta la sua roba.
     Troppo tardi! Avevo troppo lavorato, troppo sofferto per costruire, con le sole mie forze, il mio stato. Ad ogni modo, nell'interesse esclusivamente degli altri fratelli, qualche cosa occorreva fare e chiedevo, quantunque ciò fosse di pregiudizio alla mia carriera d'ufficiale, appena allora iniziata, l'aspettativa per motivi di famiglia.
     Mi ci vollero ben otto mesi per persuadere lo zio a cedere la sua azienda non agli Spinozzi, che l'avevano richiesta, ma a qualcuno degli altri nipoti, non ancora bene sistemati nella vita.

     Io ebbi a sostenere, con tutto il mio fervore, con tutta la mia autorità, le necessità del fratello Vincenzo, che languiva, in fondo ad un fosso, nel lavoro micidiale d'una fonderia di rame. Ai figli sarebbe toccato nella vita, senza dubbio, la stessa sorte del padre.
     Quando chiamai a Teramo questo fratello, per consegnargli l'azienda, subito mi scrisse:
     "Ho ricevuto la tua lettera e il tuo telegramma. Io non ho parole per poterti ringraziare; te ne sarò grato per tutta la vita. Un giorno dai miei figli sarai benedetto, sarai tenuto come un grande benefattore. Il tuo cuore è nobile; nobile perché se ne conoscono le azioni."
     Come i figli rispondessero a questo debito di gratitudine non è il caso di parlarne. Nella loro condotta, nei miei riguardi, posso dire d'aver meglio conosciuto le bizzarrie del cuore umano.


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Umberto